I cinque petali di Rosabella.

Metonimìe di un naufragio

La nostra è una società che vorrebbe essere consumista, eppure, a guardar bene, fallisce anche in questo: la nostra ingordigia, incalzata dalla cieca bulimia dell’acquisto, spinge le frontiere del desiderio sempre un passo oltre il nostro budget, nonché la nostra effettiva capacità di consumo. Insomma, è innegabile che investiamo le nostre risorse migliori nella sfida di dimostrarci all’altezza del nostro appetito; eppure ciò che veniamo accaparrando ci sfugge tra le dita per altra via rispetto a ciò che al nostro possesso sfacciatamente resiste. Sicché, alla fine, è la tarma a godersi nel buio di un armadio o una dispensa quello che non avremo mai il tempo di consumare, campassimo cent’anni. La moda, hic et nunc del “mondo liquido”, pretenderebbe di vincolare l’esperienza del tempo alla fruizione di beni di consumo, declinandola in un eterno presente, eppure il suo orologio soffre di una sfasatura congenita. Quando è finalmente giunto il momento di fruire, il trend, la moda, l’evoluzione degli standard tecnologici sono già inesorabilmente franate nel loro infernale rodeo, scrollandosi di dosso le orde di fanatici che si affannano disperatamente a montar loro in groppa. Ingovernabili fino a questo punto sono le dinamiche di mercato che queste tendenze si sforzano di orchestrare, anche solo per meglio contraffarle sotto l’alibi di una convenzione o gli artifici dello stile. Al delirio di una millantata normalità Caruso contrappone l’antidoto di un’arte stravagante solo in superficie; si direbbe che, frastornata dai miraggi della virtualità, la sua musa voglia rifugiarsi nella concretezza di una traccia residua, a costo di placare la sua sete di verità in una contemplazione sconsolata. La quale non poteva che indugiare sotto il segno della più greve fra le tradizioni iconografiche, la “vanitas”.
Probabilmente, in una civiltà destinata suo malgrado all’indietreggiamento (mi richiamo qui alle terminologie cui ammicca nelle sue chiose l’autore medesimo), le “retroguardie” detengono una funzione storica decisiva, persino più limpida al confronto delle più chiassose e conclamate avanguardie (o delle “primedonne” che hanno loro rubato la scena), sicuramente propagandano soluzioni più “ecologiche”. Se non altro, le prime, umili e discrete come si conviene a una riserva, non devono scontare la contraddizione di rappresentare paradigmi mondani entro un sistema che si propongono di criticare. Se le avanguardie si riconoscevano per l’impazienza di abbattere idoli, rovesciare padri ingombranti, sempreché non cercassero il battesimo del fuoco rigenerandosi nello spargimento di sangue fraterno, alle prime non rimane che contare i morti e dissotterrare valori. E quale può essere il territorio di pascolo d’elezione di una “retroguardia” che voglia mettere il dito nella piaga della società dei consumi se non quella discarica in cui è da cercare la sua verità più schietta e invereconda? Del resto, fino a qualche secolo fa, i medici non vaticinavano la prognosi del paziente proprio inalandone le urine?
Oggigiorno, un intero indirizzo della ricerca artistica ha imparato a cavalcare con destrezza le virtuose dinamiche del riciclo (non di rado perseguendo esiti di puro virtuosismo); ma sarebbe improprio inquadrare troppo genericamente l’arte di Caruso all’interno di pratiche sorrette da motivazioni ecologiche, dunque eminentemente deontologiche. Anche perché, mentre all’ombra dei loro assunti ideologici dette pratiche folleggiano sovente nel più beato disimpegno, viceversa il sincero afflato etico che traspira dagli elaborati di Livio conferisce alla sua estetica un rigore che nulla concede alla spettacolarità. Piuttosto, sarei propenso ad apparentare questi suoi sviluppi alle sperimentazioni meno impostate dei loro inizatori: si tratti dell’inglese Tony Cragg, cui lo accomuna la tendenza a incentrare le sue composizioni sulla disposizione/aggregazione di oggetti e masserizie almeno tanto quanto su interventi manipolativi a carico degli stessi (se non fosse che in quest’ultimo le preoccupazioni formali sembrano prevalere), oppure del danese Henry Heerup, nella cui scultura ritrovo il medesimo rifluire di ancestrali retaggi antropologici. Ciò che in fondo impone al nostro di reperire gli elementi dei suoi allestimenti nella pattumiera, o al massimo fra i cascami della natura, sono sacrosante ragioni stilistiche. Intanto, la patina del tempo è più auratica del fatuo scintillio del nuovo ad ogni costo. E, in una polemica contro quella babilonia consumistica che professa la religione dello spreco, impaziente com’è di rottamare quanto vieta di usare fino in fondo, lo scarto che sia giunto al capolinea del suo ciclo vitale dopo una vicissitudine di onorato servizio è il solo credibile attore protagonista. I segni dell’usura sono la sola prova del suo “valore” negli attriti della prassi, premesse di quella rivincita del rimosso che Livio sembra voler propiziare. Ma, in definitiva, solo le tracce impresse da un vissuto (meglio ancora se personale) hanno la prerogativa di somatizzare una macerazione interiore, pertanto sono lo stigma imprescindibile di qualsiasi esercizio spirituale aspiri a costituire un “reliquiario degli affetti”.           
Poi vi sono ragioni più strettamente simboliche. Tradizionalmente, la poiesis muoverebbe da una materia prima allo stato grezzo (chiamata a rappresentare una pura potenzialità), per proiettarvi/estrarne dei valori formali. Se già il ready-made duchampiano coltivava l’ambizione di rovesciare questo scenario nella pura eleganza del gesto, o -meglio ancora- della mossa scacchistica, spostando la fatica sul piano dell’elaborazione concettuale, trasformare la spazzatura in arte è, almeno in una logica alchemica, l’impresa più ambiziosa in assoluto: equivale a ri-convertire una terra “esausta”, “de-potenziata”, in un fertilizzante sopraffino, pregno dei principi nutritivi più virulenti; significa redimere una forma già mezzo corrotta, recuperata al limitare del suo annichilimento, intravvedendo nel suo “sfiguramento” la breccia per accedere a promettenti ri-con-figurazioni.
Pertanto, non sperate di arrivare per primi a una vernice di Caruso: ogni accessorio, ogni elemento incorporato nelle sue installazioni –ne sono testimone- è già stato consumato, ossidato dall’età, corroso dagli agenti atmosferici, ispezionato e collaudato da generazioni di tarli, pazientemente censito e approvato da intere comunità di ragni, che lo hanno eletto loro dimora. Aggiratevi piuttosto tra le sue opere come visitatori incidentali di un mercatino delle pulci: non troverete nulla di propriamente “nuovo”, eppure, se riuscirete a posare su tali cimeli uno sguardo innocente, potrete specchiarvi in questi “sciamanici finissage di effetti personali” come se vi imbatteste in presenze familiari, perché essi avranno catturato quella novità che voi siete. O avranno interpellato quella dissidenza che potreste essere. Non abbiate paura di pungervi su qualche chiodo arrugginito: solo dopo avervi estorto una goccia di sangue questi laconici totem potrebbero rompere il voto del silenzio, per leggere a fondo nel vostro vissuto e raccontare una storia novella, la vostra.  
Ci affanniamo ad apparecchiare salotti per accogliere e fuorviare gli ospiti, ma dimentichiamo volentieri la nostra verità ultimativa in una soffitta, da cui il nostro passato con grido afono ci richiama inutilmente; come lo slittino di “Quarto potere” continua a giocare in un loop temporale col fanciullo che ormai più non siamo. Un artista, in fondo, è un adulto che non si è lasciato sviare del tutto, fedele alle proprie rotte, soprattutto a quelle abbandonate, pertanto non insensibile all’appello di questi oggetti familiari.
A proposito, una ricognizione attraverso la gregarietà di queste composizioni (si tratti di una “regata di timoni”, o della conversevole giustapposizione di sedie diversamente dimensionate) ci svela come la suggestione subliminale di un nucleo familiare costituisca un principio di aggregazione ricorrente, così nitido da aggiogare le ragioni meramente formali ad altre più dichiaratamente simboliche. In sostanza, queste autentiche “famiglie di oggetti” non si limitano a importare in un contesto diversamente sacrale come quello artistico un incognito capitale di valori affettivi, ma si impongono anche allo sguardo più distratto come mute testimoni di precise dinamiche relazionali.
Mi sono interrogato, per l’appunto, sulle ragioni simboliche di un’articolazione dell’itinerario lungo cinque stazioni, che compendiano in maniera ineccepibile lo sviluppo dell’essere umano: la successione degli allestimenti in un avvicendamento che idealmente esclude una fruizione sincronica enfatizza in certo qual modo la loro dimensione simbolica di stadi all’interno di un percorso. Si parte dal contesto di una ricerca (artistica), imperniato su una cornice –non solo metaforica- da cui evadere; quindi si transita attraverso un dialogo generazionale, forse in funzione di apprendistato, al di là dello scambio affettivo presso la domesticità del focolare; si tematizza l’ossidazione dei valori, la crisi degli ideali che motivano l’uomo nella lotta e lo sostengono lungo il cammino dell’esistenza; si traggono bilanci di una deriva che sembrerebbe tradire i piani di rotta iniziali; si affronta (in forma traslata?) lo scacco esistenziale in un epilogo che riscatti il viaggio da suddetta deriva. Ci troviamo forse davanti a una Via Crucis in cinque atti? Una meditazione sul mistero della croce che finisce con la crocefissione dell’artista medesimo?
Tanto più sintomatico, in questo senso, il rinnegamento della croce messo in scena nel quadro zenitale di questa sacra rappresentazione. Sinistro, ancor più che grottesco, il feticcio che assembla nella più bislacca –e claudicante- asimmetria frammenti di suppellettili, componenti di apparecchiature tecnologiche, gusci di conchiglia, macabre reminiscenze dell’organico. “Triviale” concrezione di artigianato, natura, tecnologia, ma calibrata con un’arguzia che difficilmente troveremmo in più scontate armonie. La bocca, impaziente di connettersi, parla il linguaggio digitalizzato dei media; forse una lingua morta, giacché quegli stessi media che solo ieri ci promettevano futuribili avventure già domani saranno più obsoleti del legno tarlato che guarniscono coi loro accessori. Sembra un’icona post-umana reduce dal cimitero degli automi di “A. I.” del 2001. Potremmo persino figurarci una sorta di parabola laica: c’era una volta il corpo –verrebbe da dire-, poi esso apprese l’arte di puntellarsi con l’aiuto di qualche protesi, finché, un pezzo per volta, gli innesti non giunsero al punto di rimpiazzarlo interamente, seguitando a richiamarne approssimativamente la forma; infine, quando anche le protesi furono usurate, vennero a loro volta sostituite da componenti via via più dozzinali. Quando l’automa avrà finito di rottamare l’uomo, all’alba di una nuova creazione, il nostro aspetto sarà simile a questo. E non vi sarà un Dio a sanzionare la felicità di questo traguardo.
L’occhio trafitto di questo viandante, eternamente esitante ad un fatidico “incrocio”, fiuta l’aria come un naso pinocchiesco. Le bugie, si sa, hanno le gambe corte; questa, nel suo sbilenco equilibrio, ne ha persino una più corta dell’altra: nessuna fata saprebbe restituirgli il passo svagato e molleggiato di un fanciullo. In fondo, è la sua stessa miopia a farlo inciampare giocoforza nella verità della croce, che non può non misconoscere. O piuttosto è la croce stessa, schiantata, a proiettare nell’aria, come un’ombra demoniaca, e tragicamente concreta nella sua plasticità, la propria crudele parodia. L’oblio della croce suscita mostri, che la sovrastano e la calpestano come succubi partoriti dall’immaginazione di Füssli.
Vi sono opere che più di altre esplicitano i riferimenti genealogici di un sentiero di ricerca; questa, nel suo aspetto studiatamente raccogliticcio, le sue matrici lessicali addirittura le incorpora, letteralmente se ne serve –si direbbe- per trovare la sua peculiare andatura: penso ad esempio a un autentico topos surrealista come il “bilboquet” magrittiano, marchio inconfondibile e onnipresente nella prima stagione del pittore belga (e, fra tutte le sue declinazioni, sopra ogni altra a quella de “La nascita dell’idolo”). Se Caruso pittore ha radici eterogenee, le premesse della sua vena installativa si potrebbero circoscrivere in un’area di sperimentazione definita da due paradigmi, da una parte il Magritte degli anni venti, con la sua ermetica libertà associativa, in parte mutuata dagli interni metafisici dechirichiani, dall’altra l’arte plastica di un artefice poliedrico come il ceco Svankmajer, che raccoglie il testimone di un surrealismo avanguardista per gettarselo alle spalle e riallacciarsi a una tradizione più antica e idiomatica, non perciò meno sapida, troppo fiera del suo pedigree arcimboldesco per rinunciare allo scherzo. Lo stesso accessorio che nella pittura magrittiana tradisce il suo statuto iperuranio, l’incorruttibilità di ciò che non si sia compromesso in alcun modo con la Storia, nelle mani del cecoslovacco acquisisce una diversa sospensione al di fuori del tempo, quella conseguita mediante qualche segreto processo d’imbalsamazione; la peculiare qualità che ci lascia immaginare le bizzarre creature partorite dalle sue zoologie fantastiche evase da qualche recondito “museo di storia in-naturale”, e così furtivamente da non essersi neppure scrollate di dosso il velo di polvere che le avvolge, come a surrogarne l’epidermide incartapecorita. Ecco, i manufatti di Caruso partecipano, oltre che al chimerico meticciato di una natura ibrida, anche al sortilegio di questa sorta d’aura museale: non stonerebbero affatto in una collezione di reperti etno-antropologici, sembrano anzi voler offrire a una contemporaneità imbastardita e disorientata, penosamente dannata dietro mitologemi fasulli, l’onore di un seggio fra gli antenati, una rappresentanza in quello che le culture aborigene chiamano il “tempo del sogno”, insomma, una collocazione altrettanto degna in un ideale museo dell’immaginario universale.   
Solo nella “stazione” successiva, la flottiglia di timoni, scardinati dalle rispettive chiglie in seguito all’effrazione di una spietata logica metonimica, segnala altrettanto bene l’abbandono di una rotta e la bancarotta dell’idea di progresso; le stesse dinamiche “di-gressive” implicite nel “ri-utilizzo” di componenti sottratti a installazioni precedenti scherniscono qualsivoglia velleità progressiva con ironica concisione. Non diversamente dai ragni che dimorano tra gli accessori di queste installazioni, la creatività di Livio nidifica abusivamente presso i relitti smembrati di allestimenti più antichi per sperimentarne configurazioni alternative: persino quell’arte che dovrebbe raccogliere il precipitato estremo di un percorso ascetico verso l’essenziale, si rivela sempre ulteriormente scomponibile, presta il fianco a ri-assemblamenti, si rivela suscettibile di infinite correzioni di rotta. Fermo restando l’estremo grado di consapevolezza che sovrintende all’operazione, credo la più autentica “fragranza” di tali proposte sia da scorgere proprio nella riconciliata provvisorietà di questi “arcipelaghi di significanti alla deriva”, nella solidarietà sincera tra gli elementi che conferisce a questi argini artificiali opposti al nonsenso, solo all’apparenza gracili, un’insospettata efficacia e felicità costruttiva.      
Il motto evangelico “la pietra scartata dal costruttore è divenuta testata d’angolo” incontra in queste laiche, non perciò meno ispirate, applicazioni una rinnovata pertinenza; forse prova definitiva della pervicace inattualità di questo filone di ricerca. Mi piace paragonare l’arte di Caruso alle più nobili peregrinazioni attraverso i secoli di un capitello, alla gloria promiscua di un fregio, all’ineffabile odissea di una pietra angolare, appunto. Sia che perpetuino il loro fascino sopravvivendo allo sfacelo di un tempio che si immaginava millenario, quindi alla rovina di una basilica, sia che finiscano per andare ad adornare lo scorcio di un palazzo, a sua volta ormai fatiscente, ci raccontano la “rivincita della parte sul tutto”: ancora una volta, la figura retorica di riferimento si conferma la metonimìa. Il modus operandi del nostro è in un certo senso cugino della pratica architettonica del riutilizzo, che non a caso prende corpo nei ricorsi storici, contrassegno (e antidoto) delle fasi di declino; qui però interviene nell’”economia domestica” di un’archeologia del privato, solo in parte intellegibile a un occhio estraneo.
Il titolo (“Dell’umana conclusione”) che l’autore ha voluto dare alla stazione conclusiva di questa rassegna di interventi non potrebbe essere più appropriato: se da un artista, normalmente, ci aspetteremmo indiscrezioni intorno alle “ultime cose”, sarebbe a dire una panoramica sui virgulti più freschi della sua produzione recente, ci imbattiamo invece nella rivisitazione in chiave testamentaria di percorsi precedentemente intrapresi, o nella personale reinterpretazione della vicissitudine tragica e della ricerca artistica di un contemporaneo “martire” della pittura. Quale conclusione ci attende, dunque, nell’impossibilità di un approdo?
L’itinerario espositivo di Caruso prende le mosse da una riflessione sulla complessità e approda a una meditazione trasversale sulla fine (un suicidio). Forse vale la pena mettere in relazione complessità e suicidio; nel senso che, a tutti i livelli, quotidianamente i problemi gestionali indotti da una complessità crescente su scala esponenziale suicidano –o, peggio, ci costringono a suicidare- parti di noi che ci erano care. Care forse, ma evidentemente non abbastanza indispensabili per non essere diffalcate/sacrificate. In verità, troppo spesso vediamo soggiacere l’irrinunciabile alla più trita fiera dell’inutilità. Ma alla fine, volendo tirare le fila di questa riflessione, a quali altre risorse possiamo appellarci per orientarci in una complessità così ostile all’infuori degli affetti?
L’odierna dilagante complessità ci spinge fatalmente nelle braccia di sirene che –ahimè!- conosciamo troppo bene: le melodie orecchiabili, le grossolane semplificazioni, le soluzioni drastiche. La complessità c’è e ci sarà sempre di più, purtroppo: a poco servirebbe voltarle le spalle. Forse il vero antidoto suona un po’ come un ossimoro: una semplicità che, anziché contrapporsi frontalmente, sappia rendere conto della complessità, una semplicità che, anziché eluderla, sappia alludervi con la massima onestà, senza però arrendervisi. Ebbene, non può sfuggire come sia stata la vita ad insegnare all’arte di Caruso la sua peculiare concisione, ed è per l’appunto questa premessa che ci incoraggia a simpatizzare con una concettualità a tratti anche severa, ma almeno dal volto inequivocabilmente umano. Ecco perché, nella sua “umana conclusione”, non è tanto l’umanità ad eclissarsi, a scontare una cesura, un’estinzione, uno scacco, quanto la conclusione a trasfigurarsi in un fatto squisitamente e caparbiamente umano. Solo attraverso un’arte come la sua, verrebbe da dire, la vita può sperare di sorridere della sua incompiutezza.

Francesco Imbimbo                                                     Gorizia, 2-8 ottobre 2018