Le cinque opere
1. Più nessuna cornice (Della perduta arte)
Nonostante le varie installazioni che ho realizzato a partire dal 2008 (prima non ne facevo) sono sempre rimasto del parere che l’arte visiva è soprattutto pittura nel senso classico. Quella con le cornici, per così dire.
Riporto dal libro del filosofo e gesuita Paul Valadier I sentieri della bellezza. Arte, morale e religione (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2014):
“Con la liquidazione della cornice e del concetto di bellezza qualunque oggetto rischia di essere considerato, in quanto tale o perché formato da mano umana, un’opera artistica. L’arte contemporanea sperimenta l’inaridimento delle proprie fonti di ispirazione ma contende anche il posto alla religione come nuova idolatria.”
Quello che segue è il concetto base della concezione di Arthur C. Danto sulla fine dell'arte nella società contemporanea, espressa nel suo saggio Dopo la fine dell'arte. L'arte contemporanea e il confine della storia (Milano, Bruno Mondadori, 2008):
“L'affermazione che l'arte sia finita riguarda di fatto il futuro, non nel senso che non ci sarà più arte, ma nel senso che l'arte che verrà, sarà arte dopo la fine dell'arte, vale a dire, come ho già chiarito, arte poststorica.”
Una storia, quella dell'arte, o per meglio dire dell'arte visiva, che avrebbe ultimato la propria esistenza all'inizio degli anni '60 per mezzo della Pop Art e di Andy Wharol in particolare.
Credo che il mercato attuale dell’arte sia una delle cause dell’impoverimento degli artisti (al di là dell’arricchimento finanziario di alcuni) e dell’arte.
Al riguardo cito alcune parole di Antonin Artaud:
“Ciò che ha perso la cultura è la nostra idea occidentale dell’arte … a una nostra idea inerte e disinteressata dell’Arte, una cultura autentica oppone un’idea magica e violentemente egoista, vale a dire interessata”
Ritengo eloquente anche quanto dice Giorgio Agamben, L’evoluzione del Ready-Made, in “La Sicilia”, 34., Ragusa, giovedì 9 agosto 2012:
“Duchamp, proponendo quegli atti esistenziali che erano i Ready-Made, e non delle opere d’arte, sapeva perfettamente di non operare come un artista, sapeva anche che la strada dell’arte era sbarrata dall’ostacolo insormontabile che era l’arte stessa, ormai costituita dall’estetica come una realtà autonoma. Duchamp aveva capito che ciò che bloccava l’arte era la macchina artistica, che aveva raggiunto nelle liturgie delle avanguardie la massa critica. Cosa fa Duchamp per far esplodere o almeno disattivare quella macchina opera-artista-operazione creativa?
Prende un qualsiasi oggetto d’uso, magari un orinatoio, e introducendolo in un museo lo forza a presentarsi come un’opera d’arte. Non c’è l’opera, perché l’orinatoio è un oggetto d’uso prodotto industrialmente, non c’è l’operazione artistica, perché non c’è in alcun modo poiesis, produzione, non c’è l’artista, perché colui che sigla con un ironico nome falso l’oggetto, non agisce come artista, lo fa piuttosto come filosofo, come critico, come uno che respira, un semplice vivente, per citare Duchamp.
Quel che poi è avvenuto, è che una congrega, purtroppo ancora attiva, di abili speculatori e di gonzi, ha trasformato il Ready-Made in un’opera d’arte. Non che essi siano riusciti a rimettere realmente in moto la macchina artistica, questa gira oggi a vuoto, ma la parvenza di un movimento riesce ad alimentare, spero per non molto tempo ancora, quei templi dell’assurdo che sono i musei di arte contemporanea.
Abbandoniamo la macchina artistica al suo destino. A mio giudizio, artista o poeta non è colui che ha la potenza o la facoltà di creare, che un bel giorno decide, con un atto di volontà, come il dio dei teologi, di mettere in opera, non si sa bene come e perché. Come il poeta e il pittore, così anche il falegname, il calzolaio e infine ogni uomo non sono i titolari trascendenti di una capacità di agire o di produrre opere, sono piuttosto dei viventi, che nell’uso, soltanto nell’uso delle loro membra come del mondo che li circonda fanno esperienza di sé e si costituiscono come forme di vita.
L’arte non è che il modo in cui l’anonimo che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del musicista, del falegname, in cui, come in ogni forma di vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità.
Vorrei concludere con le parole di un grande pittore di Scicli, che alla domanda “per lei, Piero Guccione, dipingere è più che vivere?” ha risposto semplicemente: “Dipingere è certamente per me l’unica forma di vita, l’unica forma che ho per difendermi dalla vita”.
Tornando alle cornici, devo dire della mia passione che da sempre ho nutrito. Negli anni ’80 avevo addirittura acquistato l’attrezzatura per costruire autonomamente le cornici dei miei quadri: la sega multi-angolare, i quattro morsetti angolari e la pistola spara punti.
2. Qui non c’è più nessuno (Dei perduti affetti)
Ho inserito nell’installazione un foglio contenente la poesia di Padre David Maria Turoldo Io faccio amara anche la tua morte, la cui documentazione è posta in una delle bacheche presenti in mostra.
Qui riporto due poesie tratte da “Quaderni della Biblioteca Civica. Pordenone”, n. 3, 2003, da p. 39, Padre David Maria Turoldo: «I miei versi dettati alle pietre». Della prima solo la prima strofa, la seconda per intero:
Io faccio amara anche la tua morte
Mamma, hai la bocca piena di terra.
Radici ora ramificano dagli occhi
dal cuore che ci offriva il pane in silenzio.
E tremavi tutta per la nostra pena
di fanciulli ormai adulti,
di fanciulli soli e poveri. La casa è deserta d'allora,
la corte tutta un disordine e nulla
è mutato dell'esistenza avara.
Poesia
Poesia
è rifare il mondo, dopo il discorso devastatore del mercadante.
Sono stato colpito molto dai versi di Gian Giacomo Menon:
[5]
aiutami dunque
parola solitaria
gesto sconosciuto della vita
voce di un remoto lontano silenzio
incontro di lettere antiche
di una madre
di mia madre morta
silenzio
bisbigliano luoghi tempi infantili
silenzi familiari
andati caduti nel nulla
tratti da Geologia di silenzi e altre poesie, introduzione e cura di Cesare Sartori, Itinera, (Verona, Antarem Edizioni, 2018) a pagina 142 nel capitolo Inediti 1988-1998.
L’installazione, composta da una sedia per adulti e una per bambini, una croce, una grondaia arrugginita, un foglio scritto, una pietra e una radice, riprende anche il mio tema sull’utilizzo degli scarti e perciò dell’attuale modalità di uso delle cose e delle persone: lo scarto, di cui parla tanto anche Papa Francesco.
L’opera simboleggia, oltre al vuoto e l’assenza umana, l’abbandono e l’incuria, soprattutto la perdita della diretta relazione tra generazioni (tra genitori e figli, nipoti e nonni, mariti e mogli, ecc.) o, quantomeno, una distanza tra le parti non solo anagrafica, temporale ma generazionale e soprattutto culturale. Relazione globalizzata, multietnica, virtuale e asincrona. Al posto di due sedie vicine, dove sedere e parlare.
Delle modificazioni ne parla anche Concita De Gregorio in “La Repubblica”, mercoledì 13 giugno 2012, a proposito del saggio di Ulrich Beck e Elisabeth Beck-Gernsheim, L’amore a distanza. Il caos globale degli affetti, tr. it. di S. Franchini, (Roma-Bari, Laterza, 2012).
3. L'abbandono del divino (Della perduta fede)
Il terzo passaggio è rappresentato attraverso l'installazione formata da due pezzi: un crocifisso, posto a terra, e un automa, figura post-umana, sovrastante il crocifisso.
Proprio il fatto che l'automa si trova in una posizione al di sopra del crocifisso rappresenta il concetto dell'abbandono definitivo del divino e della sfida in atto.
L'automa, uomo che ha perso completamente l'aspetto umano (ormai immerso in una vita priva di elementi naturali ed etici, dove il potere e il guadagno hanno preso l'assoluto sopravvento), calpesta il crocifisso composto da pochissime parti rimanenti del corpo di Cristo.
Una posizione di supremazia, arrogante delirio di onnipotenza, tesa verso un effimero tentativo di immortalità. Ma la verità è all’opposto.
Giovanni Franzoni nell’articolo Morire vivendo e vivere morendo, a pagina 33 in “Quaderni. Confronti. Mensile di religioni, politica, società.”, numero monografico Come sugli alberi. Religioni e fine vita, n. 9, 2017, scrive:
Già Seneca, nella sua lettera a Lucilio, enunciò questa convivenza fra vivere e morire: Ita dico: ex quo natus es, duceris. Haec et eiusmodi versanda in animo
sunt si volumus ultimam illam horam placidi exspectare cuius metus omnes alias inquietas facit («Dal momento in cui sei nato, tu sei avviato alla morte. Dobbiamo avere sempre in mente tali pensieri, se vogliamo aspettare sereni quest'ultima ora, la cui paura ci rende inquiete tutte le altre». Seneca, Lettere a Lucilio, traduzione di Giuseppe Monti - I, 4, 9).
E, più avanti (III, 24, 19-20):
Memini te illum locum aliquando tractasse, non repente nos in mortem incidere sed minutatim procedere. Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimur vita decrescit («Ricordo che tu una volta hai trattato questo argomento, che, cioè, noi non incappiamo all'improvviso nella morte, ma ci avviamo a poco a poco verso di lei. Moriamo ogni giorno: ogni giorno, infatti, ci è tolta una parte della vita; anche quando il nostro organismo cresce, la vita decresce»).
L’installazione avrebbe avuto un senso diverso se il crocifisso fosse stato posto in piedi e dietro l'automa: "dimenticanza" e non "disprezzo".
L'opera segue il solco di Quod remanet (realizzata nel maggio 2017 all’interno della doppia installazione permanente nei sotterranei della BSI e denominata Krisis - Una proposta per il rinnovamento dell’arte che contiene anche Summa, di Ernesto Paulin-Paolini). Quod remanet non giungeva alla sfida ma solo all’abbandono.
Riporto la didascalia dell’articolo di Sergio Zavoli apparso il 29 aprile 2012 in “Il sole 24 ore”, riguardo al libro di Ferruccio Parazzoli, L'eclisse del Dio Unico, prefazione di Vito Mancuso (Milano, Il saggiatore, 2012):
“Domande inquiete al Dio non più unico”
Ferruccio Parazzoli affronta un fenomeno culturale e mediatico di proporzioni e tonalità inedite. Eclisse della religione o tramonto che prelude a un nuovo giorno? Dietro l'abbandono del divino, per il tempo della sua durata, continueranno ad affollarsi gli interrogativi volti a trovare conferme alla sua presenza. Un libro profondo che non consegna il suo successo a confessioni drastiche o clamorose, ma alla summa di una lunga ricerca.
La parte sottolineata la inserii nel 2012 nell’opera ad olio che intitolai appunto L’abbandono del divino. Distrussi la tela nel 2016 e alcuni pezzi rimanenti sono stati inseriti nell’installazione del primo passaggio Più nessuna cornice (Della perduta arte).
4. Timoni alla deriva (Delle perdute rotte)
Il timone serve alla nave per mantenere la rotta. La rotta ha dinnanzi a sé un punto d’arrivo, un approdo, un obiettivo.
A volte il viaggio è un’esplorazione dove la rotta è incerta. Sono sempre stato affascinato dalle esplorazioni in nave, verso il nord del mondo. Dai viaggi esplorativi, dove le navi sono scomparse. Persa la rotta, perso l’arrivo, nessuno le ha più ritrovate.
La cosiddetta Spedizione perduta di Franklin, guidata da Sir John Franklin, partita dall’Inghilterra nel 1845 verso l’Artico, è appunto una di quelle.
Dei barconi che non sempre raggiungono terra, dall’Africa verso l’Italia, e che lasciano il carico umano abbandonato, alla deriva, comprese le carcasse delle barche e i timoni.
Rotte immaginate salvifiche, invece portatrici di morte. Vite alla deriva.
Da una parte qualcuno viaggia per la salvezza. Da un’altra qualcuno osserva vite lasciate morire. Il mondo attuale ha perso il timone dell’umano sentire.
Questo il significato di questa installazione, dove il bianco (purezza) si è sporcato, il rosso è il sangue.
Nelle bacheche sono state sistemate da Antonella Gallarotti (bibliotecaria della Biblioteca Isontina) alcune edizioni della Divina Commedia e dell’Odissea: quali testi possono meglio rappresentare universalmente il viaggio umano e la perdita della rotta?
La Divina Comedia di Dante Alighieri col commento cattolico di Luigi Bennassuti, (Verona, Civelli, 1864-1868). Inferno. Canto I
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.
Omero, Odissea. Libro primo (Prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa Calzecchi Onesti, Giulio Einaudi, 1963)
L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa,
che a lungo errò dopo ch’ebbe distrutto
la rocca sacra di Troia; di molti uomini
le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare, …
5. Omaggio a Mario Di Iorio (Dell'umana conclusione)
Già negli anni ‘70 riflettevo sul senso della vita e sul significato di un'eventuale prematura conclusione. Perciò, collateralmente non potevano mancare elaborazioni sulla morte. E non mi riferisco solamente al suicidio, ma a tutte le possibilità di interruzione che l'umano percorso può contemplare.
È del 1973 la breve poesia, che composi a Rieti, col titolo Astro fulgente:
Astro fulgente
l’ora del tempo
è venuta
Sparse della clessidra
le sabbie
riesuma l’antico torpore
e l’ermo divino
s’affacci … s’affacci!
estolga il trapasso
e l’assurda atarassia
conceda.
Nel 1981, poco dopo essermi stabilito a Gorizia (proveniente da Roma), presso la sede del CIFI – Circolo Fotografico Isontino, angolo via S. Chiara e via Cadorna, presentai la mostra fotografica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dal titolo della raccolta di poesie di Cesare Pavese.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
E dopo oltre trent'anni porto a compimento, attraverso la presentazione di tre opere in omaggio a Mario Di Iorio, l'idea della conclusione.
Anche se da queste opere probabilmente non traspare immediatamente una riflessione sulla fine e certamente non contengono riferimenti ad altri aspetti che sul tema si potrebbero sviluppare.
Perché Di Iorio? Al di là della "sua scelta", ciò che mi ha dato la spinta a considerarlo è stata la presenza quotidiana, nell'ufficio della BSI dove lavoro, di un'opera di Mario, che tra l'altro ebbi il privilegio di andare a ritirare, accompagnando Marco Menato, presso l'abitazione della madre ancora vivente, a Mossa.
La sua presenza in ufficio è costituita da altre due opere, che lo raffigurano, eseguite da Maurizio Gerini.
Perciò questo titolo è frutto della suggestione - artistica - lenta e progressiva. Infatti in un giorno qualsiasi del mio lavorare sulla pittura, ripulendo un pennello con l'acquaragia, attraverso movimenti su un foglio di giornale è nata inaspettatamente e inconsapevolmente la prima opera.
Guardando vari cataloghi su Di Iorio sono stato colpito soprattutto da alcune opere, che ritengo di matrice quasi surrealista. Molto vicina alle mie immagini mentali. Ho realizzato il terzo lavoro di questa ultima sezione coscientemente, perciò non proprio istintivamente.
Nella BSI sono presenti anche due opere di Cesare Mocchiutti, che pose fine alla vita per motivazioni forse diverse da Di Iorio.
E Carlo Michelstaedter.